Al maresciallo dei carabinieri che l’ha fermato ha detto: “Sono tornato apsposta per ammazzarlo. Finalmente gliel'ho fatta pagare”. Giuseppe Bonfatti era calmo, come chi si fosse sgravato di un peso, sulle maniche del trench il sangue del nemico. Era l’8 novembre 1990.
Ma la storia ha inizio molti anni prima, quando Giuseppe è noto con il suo nome di battaglia: Remo. Il partigiano Remo, classe 1924, che nell’ottobre del ‘43 forma con altri ragazzi la Libera Associazione Giovanile di Mantova.
Conosce subito la repressione del fascismo. E’ arrestato una prima volta per lancio di volantini che inneggiano alla rivolta, rimane in carcere tre mesi. Viene processato e condannato a 5 anni, finendo nel campo di concentramento di Fossoli, da dove però riesce a scappare.
Entra nella prima brigata partigiana “Giustizia e Libertà”. A Bonfatti viene dato incarico di organizzare un’imboscata a un comandante delle camicie nere. L’azione non va a buon fine e 35 partigiani vengono arrestati.
Si scopre anche il suo ruolo nel piano, così una squadraccia delle brigate nere compie la rappresesaglia: la sua casa nella frazione di Salina è incendiata, la mamma e la sorella picchiate, il bestiame della stalla ucciso.
La guerra è finita, ma Bonfatti non trova lavoro, è costretto ad emigrare in Brasile. Lì vive fino alla pensione, quando nel 1990 decide di rientrare in Italia. E’ tornato una sola volta 15 anni prima, ma ha detto ad amici “non mi ritrovo più, non capisco più la società italiana”
Arriva nel paese di Viadana e prende una stanza all'hotel Europa, con sè ha solo una piccola valigetta. Una persona gentile e tranquilla dirà il proprietario. Prende una singola per due giorni. Giovedì 8 novembre paga in anticipo ed esce.
Per due giorni Bonfatti ha cercato il suo nemico, si è informato dei bar che frequentava. Giovedì mattina alle dieci e mezza l'ha trovato, al bar Boni di vicolo San Filippo. Ha ordinato un bicchiere di latte, e mi ha chiesto se c'era Oppici Giuseppe. “Devo dargli una lettera”.
Oppici era nella squadraccia che diede fuoco alla casa e picchiò i suoi cari. Oppici era un fascista borioso e, pensa Giuseppe, non ha perso la sua indole, mentre lo osserva giocare a carte e fare la voce grossa con i suoi compagni di tavolo.
Aspetta che esce, e nel vicolo lo affronta. Il partigiano tira fuori la gravina, il piccone senza manico che tiene nella cintura. Lo impugna e colpisce Oppici alla testa una prima volta. Quando cade lo colpisce ancora. “Sono tornato apposta”.
E’ quel che ripete al magistrato. “Per vendicarmi dell’oltraggio ai miei parenti e al mio ideale”. Si dichiara prigioniero di guerra. Processato a Brescia, viene condannato in primo grado a 24 anni, poi rimesso in libertà a causa del suo stato di salute. Muore nel 1995.
In un volume del 2015 curato da Fiorenzo Angoscini, giornalista e militante bresciano, alcune interviste con Bonfatti in cui ricorda la diffusa e tradita connotazione classista della lotta partigiana, la delusione per l’amnistia di Togliatti.
Soprattutto la prosecuzione di una guerra civile a bassa intensità condotta dai fascisti, ancora al servizio del potere agrario e della borghesia industriale. Altro che triangolo rosso o “della morte”, nome attribuito dal revisionismo alle azioni partigiane post 45.
Loro, i vincitori, costretti ad emigrare, a vivere da esuli alcuni gravati di processi e condanne. Quegli altri, gli sconfitti, i fascisti, a costituire la nervatura della Repubblica nata dalla Resistenza. Nei ministeri, nelle forze dell’ordine, nelle università.
Come ha scritto Sandro Moiso su Camilla, “fino a quando non avremo potuto sputare sulle tombe di coloro che hanno già perso una volta, ogni volta che sentiremo nominare Giuseppe Bonfatti, Partigiano Comunista, risponderemo: Presente!”. No, il fascismo non si prescrive.
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